di Gianalberto Zanoletti
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Spesso in conversazioni tra appassionati di barche a vela storiche, salta fuori la frase “vele originali di cotone”. Regolarmente nasce il quesito: una barca con le vele originali, così come l’albero, lo scafo, gli interni, l’eventuale motore, tutti originali, ha più pregio di una barca con questi elementi nuovi o rifatti? Dal punto di vista storico la risposta è assolutamente positiva.
Il fatto di sapere come venivano costruite le vele, il taglio che avevano, i particolari costruttivi, sicuramente aumenta la conoscenza su quel determinato tipo di imbarcazione o di attrezzatura. Il quesito si pone quando una barca di questo genere deve navigare, partecipare ad una manifestazione, per esempio ad una regata. Al di fuori delle prestazioni e della efficienza, un gioco di vele di svariate decine di anni fa, che è sicuramente molto meno efficiente, dà un prestigio, un maggiore valore storico ad una barca nel suo insieme? Il mio parere personale è no.
Riporto qui alcuni passi di una “diatriba”, molto più simile ad un amabile conversare che ad una discussione con il mio carissimo amico Paolo Lodigiani di cui apprezzo sia la signorilità che la competenza in fatto di barche tradizionali e storiche.
Scrive Paolo in questo articolo di qualche anno fa intitolato: “A colloquio con due vecchie barche”
Si devono far navigare le barche d’epoca? Confesso che fino all’ottobre dello scorso anno non mi ero mai posto questo interrogativo tanto mi sembrava scontato che esso avesse una risposta affermativa. L’episodio che ha minato le mie certezze in proposito è avvenuto in occasione del raduno di vele d’epoca tenutosi sul lago di Como, a cui ho partecipato con una piccola deriva della “Serie Laghi”, una classe creata nel 1923 a Cernobbio con l’ambizione di diventare la concorrente italiana del noto e diffuso dinghy 12’. Dal momento che ho in famiglia fin dalla data di nascita della classe due di queste imbarcazioni perfettamente naviganti e dotate di tutte le attrezzature originali mi è sembrata una buona idea affidarne una in occasione del raduno al nostro Presidente Gianalberto Zanoletti.
Conoscendone la passione, la competenza e il senso marinaresco ritenevo che la barca non potesse avere timoniere più degno. Di quanto la scelta fosse azzeccata ho avuto l’immediata conferma dal fatto che in un bel bordeggio da Moltrasio a Cernobbio contro una piacevole breva Gianalberto riusciva a prevalere nell’amichevole ma combattuto match race che avevamo ingaggiato. Era stata una bella veleggiata, nello stile signorile e disteso dello yachting d’altri tempi, in più allietata da un caldo sole tardo-autunnale e dalla simpatica compagnia di altri equipaggi che condividevano la nostra passione. Mi aspettavo, sbarcando a Cernobbio, di trovare l’amico Gianalberto vibrante di gioia per il combinarsi di tutti questi ingredienti. Mi stupivo quindi nel vederlo un po’ nervoso, quasi adombrato, come se lo rodesse un intimo ed inespresso cruccio. Messo alle strette dalle mie domande finì per rivelarmi che, pur avendo apprezzato il mio invito, deplorava il fatto che io usassi tranquillamente barche così pregiate esponendole al rischio di danneggiamenti che potevano risultare anche irrimediabili. Rimasi scosso da questo rimprovero, peraltro espresso in forma assai garbata: esagererei dicendo che ha turbato i miei sonni ma da allora mi chiedo se faccio bene ad usare le mie barche d’epoca e non perdo occasione per raccogliere le opinioni in proposito anche di altri appassionati. Ho ricevuto i pareri più disparati. C’è perfino chi sostiene che tutte le barche, siano esse d’epoca o moderne, non dovrebbero mai essere messe in acqua: è dal momento in cui una barca si bagna che per l’armatore cessano le gioie e iniziano i dolori. Idea forse un po’ apocalittica ma non priva di fondamento.
Al che io ho risposto:..........................mi rendevo conto che tutto quello che stavo usando in quel momento stava subendo, appunto perché lo stavo usando, un degrado. Le corde in canapa originali ritorte, le vele in cotone dell’epoca si stavano bagnando, i rinforzi di cuoio si stavano consumando; insomma ogni volta che facevo una virata vedevo avvicinarsi, anche se di poco, il momento in cui questi particolari deteriorabili non avrebbero potuto più assolvere il loro compito perché consumati o marci; insomma, è come se le tue barche avessero una tessera a punti. Ogni giorno di uso vale un punto ed i giorni di uso come i punti della tessera sono limitati. Forati tutti i punti, la tua tessera è finita.
Se vuoi il mio è forse uno scrupolo eccessivo, ma non credo, perché il giorno in cui i particolari di cui sopra non saranno più usabili perché degradati, non si troveranno più i materiali per sostituirli e forse, ma ripeto forse e comunque con grande fatica, riusciresti a restaurarli o rifarli.
La ragione dei miei dubbi è che, mentre le barche storiche si possono restaurare e con dell’ottima manodopera il risultato può essere filologicamente anche molto corretto, per quanto riguarda le vele la cosa è più difficile anche perché si tratta di materiale, il vero cotone makò, o talvolta persino la seta con cui, anche se molto raramente talvolta erano costruite, è diventato ormai come tanti altri materiali, introvabile.
Infatti, da qualche decennio le vele sulle barche storiche vengono costruite in un materiale sintetico molto pastoso al tatto, molto morbido, molto simile al cotone anche se purtroppo a mio parere un po’ troppo giallognolo. Sicuramente dei buoni velai sono capacissimi di ricostruite una vela con le stesse tecniche dell’epoca in cui l’originale è stato costruito. Se non fosse per il colore, alla vista e spesso anche al tatto, è persino difficile riconoscere, l’originale dalla riproduzione eseguita adesso. Ritornando alla domanda del titolo “si devono usare le vecchie vele originali?” mi viene in mente qualche altra idea. Al Museo della Barca Lariana di Pianello del Lario dove sono custodite circa 400 imbarcazioni per lo più da diporto di cui molte a vela, abbiamo scelto l’opzione, tranne casi eccezionali, di astenerci dal restaurare le barche. E’ stata una decisione molto combattuta e non da tutti approvata. Il fatto di rinunciare ad un aspetto accattivante a favore di conservare intatta la documentazione storica, è più un ragionamento da archeologo che da appassionato di barche d’epoca. Una delle ragioni che ci ha fatto arrivare a questa decisione è il fatto che, mettendoci nei panni di uno studioso o di un appassionato che fra cinquanta, cento, duecento anni, volesse studiare un’imbarcazione conservata presso il museo, imbarcazioni che recentemente non ha avuto nessun intervento di manutenzione, avrà l’opportunità di capire, analizzare e rendersi perfettamente conto di quelle che erano le tecniche, i materiali usati ed i sistemi di costruzione originali.
La scelta di conservare le barche così come sono senza restaurarle non è una scelta né scontata né generalizzata. Al Mariner’s Museum di Newport News in Virginia, è conservata la più antica gondola veneziana che si conosca. Ha una storia inconsueta. È stata costruita nella prima metà dell’ottocento. Verso la fine dell’ottocento era ancora a Venezia quando un ricco americano se ne è innamorato e se l’è portata a casa in America. E’ stata sempre conservata anche se in maniera non sempre ideale quando alla fine è stata dagli eredi regalata al museo. Non era in ottime condizioni per cui gli americani hanno deciso di farla restaurare. Hanno fatto un ragionamento assolutamente logico: dove potevano scegliere di meglio per far restaurare una gondola veneziana se non a Venezia? Così, si sono informati, hanno scelto il migliore cantiere veneziano tradizionale, Tramontin? Ed hanno coinvolto nel restauro anche il mio amico Giovanni Penzo, scrittore di testi sulla tecnica costruttiva delle antiche barche veneziane ed una delle persone al mondo più esperta nel settore.
Morale della favola, la barca è arrivata al cantiere Tramontin e la prima dichiarazione del Signor Tramontin appena l’ha vista è stata: “che brutta gondola”. In effetti la forma delle gondole veneziane attuali così bananate è affascinante ma poco redditizia nella voga; quella antica invece, costruita prima dell’avvento del motore e del conseguente moto ondoso ha al curva del cavallino meno accentuata, ma molto più efficiente sotto lo sforzo dei remi. Morale della favola, Gileberto Penzo era tutti i giorni in cantiere a “fare baruffa” perché la sua idea era di conservare al massimo quanto possibile l’esistente. L’idea del cantiere invece, che stava restaurando la barca aveva, giustamente dal suo punto di vista, la responsabilità di rendere nuovamente la barca atta alla navigazione. Fatto sta che è stato un peccato perché, così facendo, sì è buttato via un sacco di roba. Scrive Penzo: .............“buttando e rifacendo un sacco di roba marcia, ossia in pratica quasi tutto”. Penzo scrive inoltre: “Dovendo guidarne il restauro (di questa gondola americana) ho dovuto fare, come sempre, opera di alta diplomazia, per avvicinare le esigenze del committente – che desidera in genere un risultato smagliante – e quelle degli artigiani – che cercano di abbreviare i tempi di lavorazione e che non possono modificare le loro metodologie di lavoro – all’ortodossia di un intervento di restauro storico. Il mio consiglio era quindi di fare un intervento il più possibile leggero, togliendo le superfetazioni e, in ottemperanza con le più moderne tecniche di restauro, rinsaldando lo scafo con prodotti il più possibile reversibili.
E’ stato naturalmente impossibile far comprendere agli squerarioli la differenza tra restauro e riparazione o impedire che essi “migliorassero” alcuni dettagli, convinti come sono che, ad esempio, le resine epossidiche (ed è vero in senso assoluto) sono migliori delle colle antiche. Per quanto riquarda la finitura dello scafo, si è deciso di dipingerla nuovamente, essendo già stata più volte ridipinta in epoca recente. Abbiamo fatto preparare una pittura a olio con una formula il più possibile simile a quella ottocentesca cioè con olio e nerofumo, ma anche in questo caso avrei preferito un intervento più ortodosso ripristinando la pece originale fino al segno inciso sullo scafo sotto le masse dal quale iniziava poi lo smalto a olio”.
Ma allora, al di fuori di queste esperienze di restauro e di “filosofia” del restauro, cosa dobbiamo farne delle vele vecchie? Risposta: innanzitutto non buttarle via; conservarle nel modo migliore, ma per navigare far ricostruire delle vele nuove meglio se con la tecnica e il taglio, oltre che con l’estetica, il più possibile simile a quelle delle vele originali del passato.
Di questa direttiva è anche l’idea esposta nel regolamento della “certificazione ASDEC” che, riguardo alle vele vecchie originali, ha questa filosofia che riporto testualmente:
14/8 - Per quanto riguarda le vele invece, si deve fare una precisazione: di questa voce si giudica solo la realizzazione, il taglio e l’estetica delle vele nuove.
Il fatto di usare le vecchie vele originali non porta nessun miglioramento del giudizio perché riteniamo che le vele vecchie dovrebbero essere considerate un pezzo storico e non usate. Anche perché, essendo appunto vecchie sono anche molto delicate ed anziché usate andrebbero solo conservate: usandole se ne accelera moltissimo il deterioramento (essendo materiale deperibile e purtroppo non più sostituibile). La stessa cosa vale per il cordame. Al contrario degli scafi che possono essere mantenuti in vita senza eccessive difficoltà, le vele e le corde antiche originali, una volta distrutte, non sono più restaurabili o ricostruibili.
14/9 - L’importante, per la valutazione, è che le vele nuove e le manovre correnti (cordami ecc) abbiano l’aspetto ed il taglio delle vele originali; oltre al fatto che siano anche filologicamente corretti i loro accessori e le rifiniture. L’eventuale presentazione delle vele originali durante l’esame per la certificazione, a terra od in porto, sarà un ulteriore prova che influirà positivamente sulla valutazione.
Il mio parere è che nelle vele nuove da usare venga riprodotto il più possibile anche il taglio delle vele vecchie. Sicuramente molto meno efficienti, anche perché quando parliamo delle vele anteriori a mezzo secolo fa, erano vele con un taglio quasi del tutto prive di “grasso”.
A questo punto l’armatore può essere ad un bivio: o dedicarsi unicamente alle prestazioni della barca per poter vincere qualche coppa o possedere e usare una barca storica anche per il piacere e la soddisfazione di fare un’operazione di salvaguardia culturale.
Una barca a vela d’epoca con delle vele disegnate e tagliate al fine di ottimizzarne le prestazioni anziché riprodurre quelle originali è un po’ come fare delle altre operazioni sempre con lo stesso fine di incrementarne le prestazioni. Perché allora non montargli delle terrazze con un certo numero di persone al trapezio con cui aumentare la coppia raddrizzante e di conseguenza la velocità? O perché non montare al di sotto per esempio di una “chiglia lunga” una stretta pinna verticale con un bulbo di contrappeso alla sua estremità inferiore? Tutto ciò é ovviamente una provocazione ma, anche se a diversi livelli, il principio di vele con taglio nuovo su barche antiche è il medesimo. Rinunciare alle prestazioni a favore dell’integrità storica o viceversa.