di GianAlberto Zanoletti
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In corsa contro il tempo
“Ricordi la mia topetta? Sono due anni che la voglio vendere. E la prima telefonata è arrivata solo poche settimane fa. Una richiesta di informazioni, niente di più”. Me lo raccontava Gigi Divari, amico e uno dei massimi esperti di nautica tradizionale veneta, oltre che autore dei ben noti acquerelli che le ritraggono. “Le barche d’epoca non sembrano interessare più a nessuno - continuava mentre intingeva il pennello nel blu del mare -. Pensa che l’anno scorso a La Spezia, alla Festa della Marineria, la gente si accalcava alle bancarelle alla ricerca di souvenir. Ma le iniziative culturali e le presentazioni dei libri erano quasi deserte. E anche noi, appassionati, siamo meno assidui. Anni fa passavo decine di giorni all'anno a bordo della mia vecchia barchetta. Oggi navigo quasi solo virtualmente. Scrivo di barche e le disegno”.
Ha ragione. Tra l’altro quasi tutte le associazioni lamentano che il numero dei partecipanti ai raduni è in progressiva diminuzione. Un esempio per tutti: a Aix les Bains fino agli anni Novanta si presentavano quasi un centinaio di concorrenti, oggi sfilano poco più di una decina di barche. Certamente questo è un dato di fatto. Ma la passione che ci accomuna deve esulare dal numero di persone che oggi apprezzano le barche tradizionali e la loro storia. Noi che le amiamo sappiamo bene che si tratta di monumenti del passato con un valore culturale immenso, a cui si deve grande rispetto. E abbiamo il dovere morale di conservarle.
Per fortuna siamo ancora in molti a dedicare impegno alla nautica tradizionale. C'è chi si occupa di associazioni o musei, come Davide Gnola del Museo di Cesenatico o Giovanni Caniato e Stefano Medas dell’Istiaen, Istituto di archeologia navale; chi raccoglie notizie storiche e scrive di passato nautico, come Giovanni Panella di Genova, Gianfranco Munerotto e Gilberto Penzo, entrambi di Venezia. C’è chi recupera imbarcazioni vecchissime, a volte ultimo esemplare di una tipologia tradizionale, come fanno da anni Giorgio Suppiej e gli amici dell'Arzanà di Venezia. O Piero Gibellini, presidente della Riva Historical Society, che salva i particolari della storia del cantiere di Carlo Riva, famoso in tutto il mondo.
Ma c’è ancora molto da fare. Dobbiamo dunque continuare su questa via, cercando di trovare nuove strategie e di unire i nostri sforzi, per salvare quello che ancora resta delle barche tradizionali e della loro storia. E dobbiamo farlo immediatamente, prima che il tempo cancelli per sempre le loro tracce.
A rischio di estinzione
Ogni volta che una specie animale si estingue, la vita sulla Terra si impoverisce. E con essa la specie umana, perché la nostra ricchezza consiste anche nella varietà di tutto ciò che ci circonda. Allo stesso modo, quando una tipologia di barche, ma anche la storia ad essa legata, spariscono e se ne perde per sempre il ricordo, sono la cultura e l’uomo stesso a farne le spese. L’umanità si impoverisce.
Bisogna dunque mettere in salvo gli ultimi esemplari di barche storiche, scovandoli nei magazzini dove giacciono accatastati nell’incuria più totale, togliendoli dalle acque dove vengono lasciati affondare lentamente, mettendoli al riparo da pioggia, neve e dal logorio del tempo. Ma non basta. C’è anche la loro storia da salvare, quel patrimonio di cultura locale, di tradizioni, di conoscenze legate al modo con cui venivano costruite e usate. Il vapore per esempio, ma anche il fuoco di braci. Sono in pochi ormai a conoscere questo segreto per scaldare, rendere malleabili e curvare le tavole di legno, fino a far assumere allo scafo la forma bombata necessaria per una perfetta tenuta di mare. Tra pochi anni forse non se ne ricorderà più nessuno. Non possiamo ignorare questo tesoro. Bisogna intervenire per fermarne l’estinzione.
Come un bonsai: un sogno lungo centinaia di anni
“La felicità non è essere in cima alla montagna ma è il camminare per raggiungere la vetta”. Non so più dove ho letto questa frase, ma sono perfettamente d’accordo. La felicità è lavorare per realizzare il nostro sogno. Un sogno che talvolta vedranno realizzato solo le generazioni future. E’ un concetto orientale che nulla ha a che vedere con la filosofia occidentale del “tutto e subito”. I giapponesi dicono: “Il bel giardino lo vede il nipote”. O magari, aggiungo io, il nipote del nipote del nipote. Servono centinaia di anni perché un bonsai diventi veramente bello. E la pianta viene ereditata e tramandata di padre in figlio, o dal maestro all’allievo, per generazioni. Ho calcolato che se servono circa quattro persone a secolo, dentro un bel bonsai ci sono almeno otto persone che gli hanno dedicato la propria vita e hanno lavorato per uno scopo comune. E' il sogno di ciò che diventerà che li ha motivati.
Lo stesso è accaduto per i giardini storici che circondano le ville antiche. Ce ne sono tanti sulle rive dei laghi prealpini, monumenti di bellezza realizzati perlopiù intorno al 1700 e 1800, alcuni anche nei secoli precedenti. Tempo fa chiacchieravo con il professor Emilio Trabella, agronomo specializzato in giardini storici, sopratutto del Lago di Como, passeggiando lungo i viali di Villa Camilla, tra specie rare e giochi d’acqua. “Noi oggi siamo molto fortunati - diceva con gli occhi appagati dai cromatismi delle azalee fiorite -. Abbiamo la possibilità di godere dello splendore di questi antichi giardini perché qualcuno due, tre o più secoli fa ha deciso di progettarli e realizzarli, sapendo che solo dopo parecchio tempo sarebbero diventati autentici musei della natura. Se questi signori non si fossero avventurati in quella che già allora era sicuramente un'impresa impegnativa in tutti i sensi, anche economici, oggi noi non avremmo questo piacere”.
Mi piace pensare che un giorno, in un museo, tra decine d’anni o secoli, respirando profumo di laguna tra gondole, pupparini e mascarete, sfiorando il legno consumato di navett, batel e spingarde e immaginando fino a sentirlo lo sciacquio delle onde del lago, qualcuno, emozionato dal sapore del tempo, ripeterà le stesse parole del professor Trabella. Sarà il nostro bonsai.
I custodi della storia
Appena posso cammino lungo le mulattiere che si inerpicano sulle montagne e lungo le valli del Lago di Como. Qualche tempo fa per caso ho trovato un oggetto straordinario: un paio di zoccoli in legno, con dei chiodi con la testa a cuspide piantati nel fondo. Li ho trovati in un vano, nel muro di una casa diroccata.
Sicuramente stavano lì da più di mezzo secolo. I contadini se li costruivano e li usavano d’inverno per non scivolare quando i sentieri erano ghiacciati. Le scarpe invece bisognava comprarsele. Avevo già sentito parlare degli zoccoli chiodati. E finalmente eccoli, tra le mie mani, da toccare, guardare, ammirare: i particolari, le dimensioni, gli spessori della patella in cuoio, il numero dei chiodi. Da immagine virtuale a oggetto reale. Non valgono nulla, sono solo due pezzi di legno marci e sporchi, ma lì dentro ci sono la vita e la fatica di qualche muncecch, i contadini delle valli intorno all'Alto Lago di Como. E io sono felice della mia scoperta.
Provo una gioia intensa quando scopro da qualche parte un oggetto, una foto, un documento o una qualsiasi traccia della storia. Soprattutto delle barche. Subito la salvo come posso: registro, fotocopio, fotografo, scrivo. Per la pura gioia di poterla conservare. Al Museo di Pianello c'è una gondola veneziana del 1860. Non è la più antica, ma sicuramente la più importante al mondo, perché non è mai stata restaurata. Ha per esempio i parabordi originali in cuoio verniciati in bianco.
E sono lì, si possono toccare e guardare. L'unica altra traccia dei parabordi da gondola è in una foto all'anilina su lastra di vetro della fine dell'Ottocento, in cui si vedono il Ponte di Rialto e una gondola con due puntini bianchi sulla fiancata. A parte quei puntini, non si sa altro. Se per un insieme di strane e fortuite circostanze non fossi riuscito a recuperare la gondola, di quei parabordi non ci sarebbe più traccia. E sentirmi l’artefice del recupero di questo frammento di passato mi dà una grande emozione. La stessa che dà a tutti gli appassionati. Come se tutti noi fossimo i custodi della storia.
Solo autentica emozione
L’anno scorso il museo dei trasporti di Rahmi Bey Koc di Istanbul ha ricevuto in prestito da un museo della Florida un esemplare di Littorina italiana. L’hanno richiesta solo per poterla restaurare, esporla per qualche anno e poi restituirla. Perché gli oggetti storici sono importanti. E quando gli appassionati scoprono qualcosa che casualmente, talvolta in maniera rocambolesca, è riuscito ad arrivare sino a noi, provano un’emozione intensa. Senza scopi. Senza obiettivi. Semplicemente autentica. E’ una sensazione che pochi riescono a capire e condividere. Basti pensare che l'Italia è riuscita a demolire l'Elettra, il grande yacht di Marconi, sul quale ha effettuato le più importanti prove della trasmissione via radio nel Mediterraneo.
Un’emozione, dunque, controcorrente. Nel mondo di oggi è mentalità diffusa che sia meglio buttare un oggetto anziché conservarlo, o almeno aggiustarlo. Strano fenomeno il fatto che, dopo qualche decina d'anni, gli appassionati ricerchino con assiduità ciò che veniva gettato poco tempo prima. E siano disposti a pagarne profumatamente gli ultimi esemplari. E’ il caso dell’Eriksson, il telefono anni '60 conglobato nella cornetta e con il disco sotto il piedistallo. Uno dei primi oggetti progettati per stupire, secondo il concetto di design. Ma scomodissimi da usare. E così, magari dopo anni in un cassetto, quasi tutti gli apparecchi sono stati buttati, complice l'avvento dei telefoni a tasti e poi dei cellulari. Dopo decenni d'oblio oggi l’Eriksson è molto ricercato dai collezionisti e tra l’altro ha anche un certo valore economico.
Certo, c’è anche chi recupera e conserva con finalità “commerciali”. Niente a che vedere con l’autentica emozione.
La voglia di tramandare
La mia gratificazione? Immaginare che in futuro, tra decine o centinaia di anni, qualcuno sarà felice scoprendo che una tipologia di barca o qualche frammento della storia della marineria si è salvata dalla distruzione e dall’oblio e sopravvive in un disegno, una fotografia, un racconto o come esemplare ancora esistente. E che proveranno a loro volta la stessa gioia che ha dato a me quella scoperta.
Mi sembra che possa trattarsi anche di una forma di altruismo il pensare di fare qualcosa per chi nascerà tra qualche secolo. Non suppone l’idea di un ritorno economico, che non ci sarà mai. Solo l’istintiva e irrefrenabile voglia di tramandare. E al limite l’auspicio della gratitudine. Proprio ciò che animava i costruttori dei giardini e i coltivatori di bonsai.
Non so se tutti gli appassionati di nautica la pensino come me. Io sento di voler già bene a questi posteri. Come è possibile? E’ automatico: avranno le mie stesse passioni e proveranno con la stessa intensità le emozioni che ho provato io quando ho scoperto ciò che poi ho salvato. O forse anche di più, perché quegli oggetti saranno ancora più antichi. Ed essere in sintonia è il primo passo per volersi bene. Li considero sin da ora amici. E questo legame ideale è sufficiente per giustificare e motivare il lavoro che sto facendo adesso.
Un ponte tra passato e futuro
Paolo, appassionato di barche e amico di mio figlio, in pochi mesi ha perso sia il padre che lo zio, che conoscevo bene, essendo stato uno dei primi donatori di imbarcazioni al Museo di Pianello, oltre che il fortunato proprietario di una villa storica sul Lago di Como, di cui Paolo è risultato recentemente l'erede. Ha voluto incontrarmi per saperne di più sulla storia della villa e delle barche della sua famiglia: curiosamente la mia memoria rappresentava l'unico legame tra lui e quel patrimonio di ricordi.
L’emozione di questo ragazzo mentre raccontavo è stato un ulteriore stimolo per proseguire nell’attività di ricerca e conservazione delle barche storiche che porto avanti ormai da più di quarant'anni. Il fatto che tutto ciò oggi non sia popolare, come probabilmente non lo sarà nemmeno in futuro, nulla toglie a questa soddisfazione. Vale la pena continuare, anche per pochissime persone. “Anche per una sola persona” mi ha detto una volta Paolo Lodigiani. E, aggiungo io, anche se fossi l'unico al mondo a occuparmi delle barche tradizionali, anche se fossi circondato dal completo disinteresse dei contemporanei e fossi deriso per la mia attività, continuerei comunque, perché la nautica storica merita qualsiasi sforzo per essere salvata. E io, come gli amici appassionati, voglio continuare a essere l’anello di congiunzione tra passato e futuro.
Salvare la memoria
“Ogni volta che un vecchio muore è una biblioteca che brucia”. E’ un proverbio senegalese, un concetto prezioso che condivido. Ascoltare i racconti dei vecchi vuol dire mettere al sicuro qualche libro di quella biblioteca unica. È come quando si recupera l'ultimo esemplare di una barca storica: l'importante non è restaurarla e tornare a utilizzarla, ma conservarla da qualche parte al coperto perché non vada distrutta. Ed è altrettanto importante salvarne la memoria raccogliendo i racconti di chi è stato testimone della storia.
E’ una responsabilità e un dovere per chi si occupa di ricerca storica. Se una testimonianza è persa, lo è per sempre. Chiunque abbia a cuore la conservazione della cultura del passato deve mettere per iscritto le conoscenze di personaggi ancora viventi, quasi sempre trasmesse solo oralmente. Perché la memoria, se non viene in qualche modo salvata, dura solo fin quando le persone sono ancora efficienti e possono raccontare.
Immaginate che emozione sarebbe poter ascoltare oggi la voce del comandante di un Clipper dell’Ottocento che racconta le proprie avventure nel passare Capo Horn, magari controvento come facevano i Windjammer. O quella del suo nostromo, che ci rivela i trucchi e le astuzie che l’esperienza di secoli gli hanno suggerito per manovrare una nave così grande con la sola forza delle braccia. Certo, la letteratura ci rimanda racconti di questo tipo, ma poter ascoltare la voce dà un’emozione ben diversa. Allora non esistevano i mezzi tecnici per poterlo fare. Ma è possibile oggi, complice la tecnica: basta un registratore digitale o una videocamera. Non importa se questi concetti non vengono rielaborati subito in un testo o in un filmato. L’importante è averli bloccati e archiviati. Più il tempo passa e meno vi saranno possibilità che vengano salvati. E in alcuni casi, troppi purtroppo, non è già più possibile.
Un baule di monete d'oro
Prima dell’inaugurazione del museo di Pianello, nell’82, ho conosciuto il signor Galli, di Lecco. Allora aveva poco meno di 90 anni. Mi ha raccontato la sua storia, comune a tanti maestri d'ascia del lago. Ha cominciato a lavorare da bambino in un grande cantiere di Lecco. Il suo primo lavoro: spustaa i grusezz (spostare le grossezze), ossia tenere in ordine quei blocchi di legno squadrati da usare sotto il crick. Poi è passato al secondo compito: bufà via la segadura (soffiare via la segatura) che si formava tagliando le tavole con il refendin, un grande segaccio manovrato da due persone, dopo aver tracciato la linea di taglio con uno spago teso, intriso di gesso secco. Siccome era bravo è andato avanti. Allora si usava la colla rossa, bisognava scioglierla in un pentolino a bagnomaria. E Galli, un ragazzino, doveva stare attento che la colla avesse la giusta temperatura. Una volta si è distratto e la colla si è scaldata troppo, bolliva. Il maestro d'ascia, senza dire una parola, ha intinto il pennello e l'ha passato sulle labbra del piccolo Galli. L’ha ustionato. E lui ha imparato. I compiti si sono via via susseguiti nel tempo. Galli “rubava il mestiere”: voleva imparare dagli operai bravi, quelli che non volevano essere guardati dai potenziali concorrenti. E anche lui è diventato un “operaio finito”, che allora era un titolo quasi superiore all’ingegnere di oggi.
Finché intorno agli anni ‘70 le cose sono cambiate e la plastica ha preso il posto del legno nella costruzione delle barche. Dopo migliaia di anni di storia. Una svolta. E improvvisamente il patrimonio di esperienza che il signor Galli aveva accumulato con fatica, il suo baule di monete d'oro, sembrava non valere più niente.
Quando ho raccontato a Divari la storia del signor Galli, mi ha fatto notare che ascoltare i racconti di questi personaggi, scriverli e tramandarli, significa anche render loro omaggio, ricordare grati le loro conoscenze e fare in modo che la loro opera sia sempre viva. E allora ho ripensato ai tanti signor Galli che ho incontrato e intervistato nei miei anni di ricerca. Effettivamente si verifica uno strano fenomeno, cambia in qualche modo la loro visione della propria vita, perché improvvisamente scoprono che tutte le loro monete d’oro, i sacrifici, l’esperienza, la fatica e l’impegno, anziché non valere più niente come pensavano, sono talmente preziose da meritare non solo la conservazione, ma addirittura la menzione in un museo. Quanti signor Galli sono tornati a Pianello, nelle sale del museo, magari tenendo per mano un nipotino al quale mostrare fieri le barche alle quali avevano dedicato la propria vita. Alle loro lacrime di commozione e nostalgia spesso si aggiungevano le mie.
La via da seguire
Cosa possiamo fare dunque di più per salvare l’immenso patrimonio della nautica tradizionale, il nostro bellissimo bonsai? Innanzitutto, come suggerito, ogni appassionato dovrebbe crearsi il proprio “archivio di memorie”, fissando le notizie inedite di cui viene a conoscenza, documenti scritti, immagini, foto, video.
Il secondo passo è quello di collaborare, facendo sì che i tanti “archivi di memorie” non rimangano isolati ma diventino un’unica grande e preziosa biblioteca. In che modo? Innanzitutto incentivando le occasioni di incontro e confrontandoci. “Non basta limitarci agli appuntamenti ufficiali, come la festa della Marineria a La Spezia o il convegno di Cesenatico - suggeriva Divari a tal proposito -. E' solo incontrandoci più spesso che possiamo scambiarci idee e opinioni, metterci reciprocamente al corrente delle conoscenze che abbiamo accumulato e ascoltare le notizie che hanno scovato gli altri. Così si paragonano e si accostano varie realtà, si crea nuova conoscenza sulla storia della nautica tradizionale e cresce ovviamente anche la nostra soddisfazione”.
Sono perfettamente d'accordo con Divari e anche noi dell'Asdec di Milano, che ci occupiamo di nautica storica da 27 anni, ci impegneremo più assiduamente in questo senso. Perché, oltre a fare cultura, questi incontri rafforzano anche i vincoli di amicizia tra persone che condividono gli stessi principi filosofici e le stesse passioni. E cosa non meno importante, sono occasione di divertimento e allegria. Mi pare che anche per Aristotele questa fosse una delle cose più piacevoli della vita.
*Con l’aiuto di Marcella Molteni